Sessanta giorni
Dalla stanza intravediamo solo lei in sala d’attesa dello Sportello Sanitario. Capelli tirati all’indietro, specchietto in una mano, trucchi nell’altra, occhi socchiusi. Ha appena ricevuto una dose di vaccino per il COVID19, sta aspettando i canonici 15 minuti e, nell’attesa di poter uscire, coglie l’attimo per truccarsi. Dispiace interrompere questo momento, ma anche lei vuole parlare, subito scatta in piedi e si accomoda nella stanza delle visite. Chiacchierando con lei si scopre che è venuta in taxi ed essendo in anticipo, poco prima di entrare nello studio medico, si è fermata a comprare dei trucchi nel negozio a fianco. Ci confida che era da tanto tempo che non si truccava, che non usciva di casa e che non parlava con qualcuno e ci tiene a quantificare questo “tanto tempo”, precisamente sessanta giorni. Come ci si sente a contare sessanta giorni tutti uguali tra loro? Cosa vuol dire trascorrere sessanta giorni di solitudine? La nostra paziente li descrive come una necessità imprescindibile per poter sfuggire agli attacchi di ansia e panico, dovuti anche alla paura di una possibile infezione da SarsCov2 sui mezzi pubblici. Una gabbia falsamente dorata di fronte alla quale, con estrema lucidità, si sceglie di entrare e sedervisi dentro, ma ad un prezzo altissimo. “Beato chi ha inventato le benzodiazepine” afferma ad un certo punto, riferendosi a quei farmaci che sembrano, durante quei picchi di ansia, essere l’unica àncora di salvezza. Le benzodiazepine e analoghi rientrano in una classe di farmaci ampiamente utilizzata in Italia per il trattamento della sindrome ansiosa e dei disturbi del sonno e nel 2019 ha rappresentato, insieme ai contraccettivi e ai farmaci per la disfunzione erettile, il prodotto a maggiore spesa, il 18.2% della spesa totale (Osservatorio Nazionale sull’impiego dei medicinali – 2019 – “L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto Nazionale”). Agendo a livello del Sistema Nervoso Centrale su specifici recettori, ottengono effetti ansiolitici, sedativi e/o ipnotici a seconda del farmaco, ma non sono scevre da effetti indesiderati fino anche allo sviluppo di una vera e propria dipendenza, non solo fisica ma, soprattutto, anche psicologica.
Ma, parlando, ecco che appare forse una seconda àncora di salvataggio. Infatti basta chiedere del lavoro prima che andasse in pensione per vedere una persona fisicamente e psicologicamente chiusa in sé stessa aprirsi come un fiore sotto il sole: il volto e gli occhi si illuminano e non per il trucco, le rughe di espressione si appianano, la mano davanti al viso lo scopre e, nonostante la mascherina, si intuisce un sorriso ampissimo nel ricordare di quanto fosse bello lavorare ed insegnare. La paziente starebbe ore e ore a parlare del suo lavoro, di come insegnava la lingua italiana, della differenza tra insegnare ai bambini rispetto agli adulti, di come il suo metodo di insegnamento la mettesse in discussione con i colleghi. Sembra un ossimoro ascoltare una persona, che ora appare così fragile, parlare di come ha affrontato di petto i sindacati per far valere il suo operato e i diritti dei propri studenti. Eppure, oggi questa stessa persona afferma di essere stata sessanta giorni chiusa in casa per paura di ciò che produce la sua stessa mente e di soffrire di una sindrome depressiva che non la abbandona dalla nascita di suo figlio.
La depressione maggiore è la patologia psichiatrica più diffusa in Italia; secondo un’indagine Istat, nel 2018 nella popolazione over 65 anni si attestava al 14,9%. Nella letteratura scientifica, già prima della pandemia da SarsCov2, sia l’isolamento vero e proprio sia un distanziamento parziale dalla vita sociale erano stati associati ad un aumento dei disordini psichiatrici nella popolazione anziana, quali ansia e depressione (Santini, Z. I., Jose, P. E., York Cornwell, E., Koyanagi, A., Nielsen, L., Hinrichsen, C., … Koushede, V. (2020). Social disconnectedness, perceived isolation, and symptoms of depression and anxiety among older Americans (NSHAP): a longitudinal mediation analysis. The Lancet Public Health, 5(1), e62–e70. doi:10.1016/s2468-2667(19)30230-0). Con il lockdown nazionale e le varie misure precauzionali per ridurre i contagi ciò è emerso ancora più chiaramente: se da un lato si ambiva a proteggere le categorie più fragili, anziani e malati cronici, e ridurre il carico di lavoro sul Sistema Sanitario Nazionale (SSN), dall’altro l’impatto psicosomatico dell’isolamento ha comportato un aumento di patologie e/o sintomi psichiatrici, come può rappresentare il caso della nostra paziente, la quale, già affetta da patologie croniche e una sindrome depressiva maggiore, ha visto notevolmente aumentare le proprie fobie e il proprio malessere.
Così facendo, la pandemia ha acceso i riflettori sulla salute mentale, tema da sempre poco trattato perché ritenuto secondario e meno importante rispetto invece alla salute fisica e alle patologie organiche sia dai pazienti, che hanno sempre considerato i disturbi mentali un problema solamente di chi si rendeva “folle” o “pazzo”, sia dallo stesso Sistema Sanitario Nazionale che offre scarsi servizi psicologici sul territorio, spingendo alla ricerca di professionisti della salute mentale nel privato. Tutte le materie che si occupano di salute mentale, Psichiatria, Psicologia e Psicoterapia, sono oggetto da sempre di uno stigma sociale, che purtroppo ha radici ben profonde e che arrivano a toccare anche le istituzioni, di conseguenza anche l’organizzazione del SSN. In questi ultimi anni si cerca di abbattere questo stigma, di scardinare il pensiero che l’argomento della salute mentale interessi solamente i “pazzi”; piuttosto, si vuole diffondere il messaggio che la mente può ammalarsi come un qualsiasi organo solido dell’organismo umano e si vuole ridare dignità anche e soprattutto ai pazienti stessi. Oltre al Dipartimento di Salute Mentale (DSM) e i centri diurni, che rimangono i principali punti di accoglienza per coloro che necessitano di una visita psichiatrica, un incontro con psicologi e/o psicoterapeuti o hanno un’emergenza sanitaria, con il Coronavirus sono stati creati diversi sportelli d’ascolto. Purtroppo, un limite importante è che gran parte di questi nuovi servizi hanno un target molto circoscritto di utenza, se non anche un periodo breve di esistenza come strumenti di supporto psicologico.
Per quanto si parli ampiamente della necessità di aumentare l’assistenza alla salute mentale sul territorio, soprattutto dopo il grande stress emotivo di questi ultimi due anni, gli strumenti che permetterebbero veramente di intraprendere percorsi diagnostico-terapeutici sono tuttora esigui, poco organizzati e non riescono ancora a soddisfare le continue richieste dei cittadini. Basti pensare al bonus Psicologo, che in un mese ha visto più di 200 mila adesioni ma è rivolto solamente ad una fascia di reddito entro i 15000 euro. è chiaro che numerosi sono stati i passi in avanti: un grande merito va attribuito alle nuove generazioni, che pongono la salute mentale in una posizione al pari di qualsiasi altra necessità, che sia il lavoro o l’istruzione, e che sono meno propensi a portare avanti lo stigma delle malattie psichiatriche e quel concetto ormai superato e disprezzato di “persona normale”. Cos’è la normalità? Chi stabilisce cosa sia normale e cosa non lo sia? La “normalità” è soggettiva e non c’è una definizione standard; piuttosto normale è qualcosa che si conforma alle proprie modalità di essere, comprendere e agire, quindi tutte le definizioni sono accettabili, finché non ledono la libertà degli altri. Le malattie psichiatriche non rendono una persona “non normale”, la rendono malata, quindi meritevole e degna di una terapia, pertanto ci auspichiamo che questi passi in avanti nell’opinione pubblica corrispondano presto ad altrettante importanti modifiche del SSN sul territorio.