Un incontro salvavita

Nel 2021 R., oggi 37 anni, originario del Bangladesh, viene a conoscenza dell’Associazione e dello Sportello Sanitario, probabilmente grazie al destino. Al tempo, seguito da altri medici, è entrato nel nostro ambulatorio perché accompagnava un’altra persona, ma non potevamo ignorare la grossa tumefazione che aveva sul lato destro del collo. Così, facendo domande, con il timore di apparire troppo indiscreti, si è scoperto che da mesi R. era preoccupato per questo gonfiore.

È iniziato tutto a Marzo 2021, nel bel mezzo dell’ennesima ondata COVID. Tutto ciò stava creando non poche difficoltà anche solo per un semplice consulto con il proprio medico di base. La situazione era ingestibile agli occhi di R: c’era la paura dei contagi fuori e dentro gli studi medici, continue porte chiuse degli ambulatori, l’ostacolo della lingua italiana e questa tumefazione dura e dalle dimensioni non indifferenti che non accennava a scomparire. Nella confusione più totale e dopo l’ennesimo rifiuto da parte di medici a visitarlo, R si è ritrovato all’improvviso con la prescrizione di un’ecografia in mano e, soprattutto, da solo. Rimbalzato a destra e manca, è arrivata la prima diagnosi, a posteriori completamente errata, di gozzo tiroideo nodulare e linfoadenopatia latero-cervicale, ovvero si refertava che la sua tiroide era aumentata di volume con dei noduli e che c’erano nel collo dei linfonodi reattivi-infiammatori. In conclusione una condizione benigna, da dover solamente monitorare e tenere sotto controllo.
È a questo punto che allo Sportello Sanitario abbiamo scelto di indagare più a fondo la condizione, che non sembrava del tutto chiara. Infatti, dopo aver effettuato una TC total body, abbiamo scoperto che i linfonodi del collo erano tutt’altro che infiammatori, anzi erano completamente sconvolti da una patologia che si prospettava tutt’altro che benigna. Una biopsia successiva ha confermato quindi il sospetto: si trattava infatti di un tumore tiroideo, che è stato poi subito sottoposto ad intervento chirurgico e successiva radioterapia.

Il tumore della tiroide è la neoplasia endocrina più frequente. Secondo il Globocan 2020, database della WHO (World Health Organization) che fornisce dati sulle neoplasie in 185 paesi diversi, i tumori della tiroide sono per incidenza il diciannovesimo tumore in Bangladesh. La frequenza è nettamente maggiore nelle donne, ma con il maggior uso dell’ecografia si sta osservando un aumento dell’incidenza anche nel genere maschile. Grazie al miglioramento delle tecniche diagnostiche ecografiche precoci, vantiamo un aumento delle diagnosi dei tumori della tiroide; in particolar modo, secondo uno studio italiano, l’intervallo di tempo che separa l’inizio e riconoscimento dei sintomi e la diagnosi della patologia va dai 12 ai 40 giorni (G. Dionigi; M. L.Tanda; E. Piantanida; L. Boni; F. Rovera; R. Dionigi; L. (2009). Time interval in diagnosis and treatment of papillary thyroid cancer: a descriptive, retrospective study. , 197(4), 0–438. doi:10.1016/j.amjsurg.2008.01.031). Eppure, nel caso appena esposto, R. ha impiegato sette lunghi mesi per la diagnosi, nonostante manifestazioni cliniche schiaccianti e molto evidenti.

È lampante come tutto sia partito da diversi errori medici; quando si parla di colpa in ambito medico, si fa riferimento ai tre concetti di imperizia, imprudenza e negligenza. L’imperizia è quella che ha sicuramente determinato una prima diagnosi errata, ritardando ulteriormente l’inizio delle corrette terapie, ma la negligenza è il punto nevralgico di questa vicenda. Negligente è un medico omissivo, inerte e che, nonostante la sua preparazione, magari anche eccellente, volta le spalle al paziente, lasciandolo in balìa di sé stesso. Dall’inizio della Pandemia, numerosi sono stati i medici a interrompere visite ambulatoriali anche per quesiti che non facevano minimo riferimento ad una patologia contagiosa, ponendo tra loro e i pazienti numerose barriere, a partire da quella fisica ed architettonica dei muri dello studio fino alla barriera della mascherina, strumento protettivo da un lato e distanziatore sociale dall’altro.

D’altro canto, spesso osserviamo nel nostro ambulatorio pazienti stranieri che sono altrettanto “negligenti” nei confronti delle proprie condizioni di salute: ad esempio pazienti che tornano nel nostro studio dopo anni di apparente benessere con diagnosi di infarto cardiaco, pazienti che ricevono diagnosi di ipertensione arteriosa ma che non controllano minimamente perché smettono di assumere i farmaci o pazienti come R, che rimangono per mesi con neoplasie che crescono a dismisura e che stravolgono l’intera fisionomia del proprio corpo.

Quindi se la domanda iniziale che ci siamo posti poneva tutta l’attenzione sull’errore medico, adesso ci chiediamo anche quanta responsabilità è da attribuire al deficitario rapporto medico-paziente da entrambi i lati? Se prima dell’arrivo del nuovo Coronavirus era una relazione già incrinata dalla scarsa fiducia l’uno dell’altro, con la paura di essere contagiati ed ammalarsi le distanze sono aumentate e si è ridotto il tempo della comunicazione verbale faccia a faccia, a favore invece di email, messaggi o telefonate che però non sostituiscono mai la visita ed un esame fisico e non costruiscono delle basi per un rapporto solido tra il medico e il paziente. Per il paziente straniero questa relazione è ostacolata da un elemento in più, la barriera linguistica, che non solo può essere responsabile della riduzione della qualità della prestazione sanitaria, ma è anche fonte di insoddisfazione e frustrazione per entrambe le parti. All’inizio di questa storia R non parlava bene in italiano, ma ha dovuto fare di necessità virtù e impararlo per poter parlare con i medici e comprendere le cure che avrebbe ricevuto. Circa il 15% delle persone che accedono al nostro Sportello Sanitario non parla per nulla o poco l’italiano, di cui la maggior parte sono donne, rendendo necessaria la presenza di un mediatore presente fisicamente o a volte telefonicamente che sappiamo per certo non riuscirà a far comprendere al 100% gli obiettivi terapeutici e diagnostici che vorremmo condividere con il diretto interessato. Ripetiamo continuamente ai nostri pazienti quanto sia necessario e importante imparare la lingua del Paese in cui si vive, non solo per la normale convivenza ed integrazione, ma anche per poter comunicare i propri bisogni medici, conoscere e saper descrivere sintomi e patologie e, ultimo ma non per importanza, comprendere la terapia da effettuare.

Nonostante tutte le difficoltà del caso, possiamo però dire che la nostra storia ha un lieto fine: R. adesso è seguito dal nostro Sportello Sanitario e sta continuando il monitoraggio del suo stato di salute generale. In tutto questo tempo non ha perso la gentilezza che lo contraddistingue, ma ha ben compreso l’importanza di non trascurare determinati sintomi ed è una lezione che sta cercando di trasmettere anche ai suoi famigliari anche seguendoli nelle loro visite mediche.