Natalità interrotta

F. è una donna bangladese che, come tante donne del suo paese migrate in Italia, ha lasciato la sua famiglia di origine per raggiungere il marito portando con sé, tra sogni e paure, la prospettiva di diventare madre nella nuova terra.

Arrivata nel 2017 F. si presenta al nostro Sportello Sanitario solo ad agosto 2018 e fino ad allora aveva avuto come unico riferimento medico la sua ginecologa. Col tempo capimmo che il suo desiderio di gravidanza veniva prima di tutto il resto, prima ancora di lei stessa. Viene accompagnata dal marito perché non parla una parola di italiano e la conoscenza della lingua, seppur elementare, del marito gli fa acquisire il ruolo di mediatore linguistico. Ci parlano del loro desiderio di avere figli. All’epoca la donna aveva 32 anni, in piena età fertile. Non portano nessuna documentazione medica di esami e visite effettuate per cui mentre proviamo a capire qualcosa della sua storia medica personale e familiare le prescriviamo esami di routine per indagare, oltre a una valutazione dello stato di salute generale che è di normale prassi durante la prima visita, possibili cause endocrine, metaboliche e autoimmuni che possono essere causa di infertilità nella donna in età riproduttiva. Ha inizio un dialogo surreale, fatto di intoppi linguistici, confusione e imbarazzo per la coppia. L’argomento è solitamente visto in Bangladesh come “cose da donna” e il marito, seppur percepito come intruso, è il suo unico punto di riferimento nella sua nuova vita in Italia ed è indispensabile durante il colloquio. La donna durante la visita scoppia in un pianto ininterrotto e il marito ci riferisce che ha avuto da poco un aborto spontaneo, evento chiave della sua storia clinica ma che la donna aveva tentato di tenercelo nascosto e non ne vuole parlare. Alla barriera linguistica si aggiunge il disagio emotivo e la comunicazione è interrotta. L’unico fatto che riusciamo a intuire è che è stata ricoverata in ospedale e che ora sta bene. Consigliamo loro di ritirare la cartella clinica relativa al ricovero al più presto e di portarcela. Diamo indicazioni sulla nostra Scuola di Italiano e sproniamo entrambi a imparare la nostra lingua e riprogrammiamo un appuntamento il più velocemente possibile per esaminare la documentazione medica mancante.

Li vediamo invece ricomparire a studio ad aprile 2019, della cartella clinica nemmeno l’ombra e ci presentano una lista di esami, indicati dal medico specialista, che necessitano di prescrizione con diagnosi di sterilità. Dalle analisi di routine risulta un’alterata tolleranza glucidica che può aumentare il rischio di aborto spontaneo, per questo decidiamo di inviare la paziente anche a controllo endocrinologico per le eventuali cure. F. ci sorprende con un buon italiano, timido e zoppicante ma comprensibile, spinta da una gran voglia di comunicare con noi. Ci racconta che segue il corso di italiano per stranieri presso la nostra Biblioteca Interculturale Cittadini del Mondo e che si sta impegnando molto. Non potendo trascurare la mancanza di informazioni relative all’aborto riusciamo a risalire al nome del medico che ha la donna in cura e finalmente facciamo un po’ di chiarezza sull’evento passato. Le notizie che riceviamo ci fanno capire il dramma che F. ha vissuto: ha avuto l’aborto in epoca gestazionale avanzata, alla 22esima settimana, e dall’analisi genetica fatta sul materiale fetale risultava una trisomia 13, un’anomalia cromosomica che, causando malformazioni fetali, può portare ad aborto spontaneo per cui la coppia dovrà effettuare anche indagini genetiche. Intuiamo che all’epoca nessuno gli avesse spiegato qualcosa, ci cimentiamo noi nell’arduo compito. Immaginate cosa vuol dire provare a far comprendere tale anomalia a persone che non hanno mai sentito parlare di DNA e che parla a stento la nostra lingua.

Torna a studio dopo un paio di mesi per la prima volta da sola, senza il marito, per chiederci spiegazioni sull’esito degli esami specialistici che riportavano termini a lei incomprensibili. L’ecografia pelvica effettuata faceva sospettare un polipo dell’utero e lei non ha idea di cosa sia un polipo, non capisce perché i dottori le diano da fare esami su esami e parlino di tutt’altro, di polipo, tolleranza glucidica, DNA e non le sembra che si stiano concentrando sulla sua difficoltà ad avere figli. F. è sconfortata. Proviamo a spiegarle che deve prima concentrarsi sul suo stato di salute attuale, che sta effettuando queste indagini per valutare il suo rischio di perdere una gravidanza, che deve essere prima forte e in salute per poter affrontare una gravidanza e portarla a termine. F. sembra capire e fidarsi di noi. Le chiediamo se ha amiche qui a Roma, se è in contatto con le sorelle, la madre o la suocera per provare a ricostruire la mappa delle relazioni da cui la donna possa trarre un qualsiasi tipo di supporto emotivo-affettivo. F. è sola e ha sporadici contatti con la famiglia di origine tramite videochiamate.

Intanto l’esame di isteroscopia per il sospetto polipo è stato prenotato, le spieghiamo in cosa consiste e che dovrà sottoporsi a questa indagine invasiva per accertare la diagnosi. Le diamo un nuovo appuntamento a breve per eseguire a studio un elettrocardiogramma, esame richiesto per poter eseguire l’isteroscopia. F. si presenta all’appuntamento, anche stavolta arriva autonomamente. E’ in questa occasione che F. si apre con noi, ci confida di essere delusa mostrandoci il risultato delle sue analisi che indicavano ancora un’assenza di gravidanza. Ci dice di essere molto preoccupata e si sente responsabile perché nel suo paese è sempre colpa della donna se i bambini non arrivano. Ci racconta come ha vissuto l’aborto dell’anno precedente, che il feto era nato vivo ma che lei non aveva potuto vederlo perché i medici le avevano risposto che era meglio così, che sarebbe stato insostenibile, “too emotional”. Appare evidente che l’evento sia stato traumatico per la donna, che un supporto psicologico sarebbe stato necessario, che una comunicazione efficace sarebbe stata doverosa in tutte le visite mediche che la donna ha effettuato, che la mancanza di una rete sociale ha fatto sentire F. sola ad affrontare tutto questo. Per non esporla a ulteriori traumi consigliamo alla coppia di non intraprendere nessuna gravidanza prima dell’esito degli esami necessari a inquadrare la causa dell’abortività.

L’isteroscopia effettuata di lì a poco conferma la presenza del polipo uterino per cui F. viene messa in lista d’attesa per l’intervento di asportazione del polipo. Non abbiamo notizie delle indagini genetiche che la coppia doveva effettuare, non abbiamo nessun riscontro con gli specialisti. Ad agosto giunge al nostro sportello tutta contenta perché dalle sue analisi si evince che F. è incinta. Ma a breve perderà anche questa gravidanza. La preoccupazione di F. diventa disperazione e i nostri strumenti sono limitati per assisterla a dovere. Sembra che i nostri consigli non siano compresi o non vengano seguiti dalla coppia. Torna da noi in visita a febbraio 2020 con i referti relativi all’intervento di polipectomia che era stato fatto a dicembre. Il decorso post operatorio era stato normale ed esente da complicazioni ma F. non aveva capito che sarebbe dovuta tornare al controllo specialistico dopo trenta giorni dall’intervento così ricontattiamo il medico specialista per reimmettere F. nel suo percorso di cure.

Di lì a poco arriva il Covid-19 a complicare le cose. Le visite di controllo vengono rimandate, F. si rinchiude in casa, abbandona il corso di italiano perché non ha dimestichezza con internet e non riesce a frequentare la classe online. F. rimane nuovamente incinta e perde nuovamente la gravidanza. La terza. F. contrae il coronavirus, per fortuna senza sintomi e senza complicazioni ma il suo isolamento aumenta e la ingabbia nei suoi pensieri. Quando rivediamo F. a studio è visibilmente dimagrita e ha perso totalmente l’uso di quel poco italiano che aveva imparato con tanto impegno. Ripristiniamo un nuovo percorso di cure per il suo problema di abortività ricorrente ma per F. bisognerà fare molto di più: superare la barriera linguistica e avviare un percorso psicologico per iniziare quel processo di empowerment che la rafforzi come persona, donna, straniera all’interno della nostra società, ed eventualmente anche come futura mamma.

Come altre persone bangladesi che hanno stretto relazioni con il nostro Sportello Sociale, F. e suo marito hanno potuto guadagnare l’unità familiare attraverso il ricongiungimento. Con il termine ricongiungimento familiare si intende l’istituto giuridico mediante il quale il diritto all’unità familiare può essere conseguito. Il diritto all’unità familiare e l’istituto del ricongiungimento sono disciplinati nel Testo Unico sull’immigrazione, nello specifico l’art. 28 riconosce tale diritto ai migranti titolari di permesso di soggiorno, di durata non inferiore a un anno, rilasciato per motivi di lavoro subordinato o autonomo, asilo, studio, motivi religiosi o per motivi familiari. L’istanza di ricongiungimento familiare può essere avanzata da chi risponde ad alcuni requisiti: è necessario disporre di un certo reddito minimo annuo; dimostrare il legame familiare con i soggetti da ricongiungere; avere un alloggio che soddisfi i criteri di idoneità abitativa e quelli igienico-sanitari previsti. Avviene così, attraverso una procedura spesso annosa, che la moglie dal Bangladesh arriva in Italia e questo, che sembra un bel finale di un percorso migratorio, è in realtà solo l’inizio di un percorso dissestato che dovrebbe, secondo la normativa vigente in tema di ricongiungimento familiare, portare all’integrazione del nucleo familiare migrante nella società di accoglienza. Dal 2012 in Italia al migrante che presenta domanda per il permesso di soggiorno, di durata superiore a un anno, è richiesta la sottoscrizione di un Accordo di integrazione con cui lo Stato si impegna a fornire strumenti che favoriscono l’integrazione come corsi di lingua italiana, di cultura e dei principi generali della Costituzione italiana; il migrante a sua volta si impegna a rispettare l’insieme dei doveri individuati nella Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione varata nel 2007.

Il caso di F. porta a una riflessione su come tali strumenti a favore dell’integrazione abbiano bisogno di essere modificati, approfonditi e meglio gestiti; di fatto non hanno avuto l’efficacia auspicata né per lei né per suo marito. È necessario che il processo di integrazione debba riguardare molti più ambiti, non solo quello giuridico ma anche sociale, psicologico e relazionale. Le politiche migratorie in materia familiare dovrebbero adottare un approccio improntato al rispetto anche del genere delle persone coinvolte; come per F., per le donne migranti è necessario che vengano applicate politiche specifiche, non stigmatizzanti la donna, intesa come soggetto passivo delle migrazioni, ma produttive di maggior coesione sociale e territoriale. Diversificare le politiche, le pratiche e le iniziative in base al genere vuol dire invece valorizzare gli aspetti legati al genere e alla cultura di appartenenza ed enfatizzare la costruzione attiva delle relazioni promuovendo l’interazione transculturale e avviando percorsi di inclusione sociale e di supporto psicologico personalizzati.